Grazie mille a Libero Pensiero e a Sara Santoriello per lo spazio che ci avete dedicato.
Il nuovo album “An Gorta Mór” è una trasformazione dello stile degli Ifsounds. Vi considerate una band che “pensa concettuale“, cioè focalizzate l’attenzione su un argomento in particolare durante la realizzazione dell’album, ma nello specifico di cosa si tratta?
«All’inizio si trattava di un gruppetto scolastico, poi la cosa si è evoluta. Dopo un’interruzione dell’attività, dal mio rientro in Italia nel 2013, il gruppo ha avuto questa nuova forma fino a quest’ultimo disco. Noi vediamo gli album nel modo tradizionale, com’era negli anni ’70. Crediamo che debbano raccontare una storia e trattare un argomento. Su questo argomento, che può essere più o meno ampio, si inseriscono tutte le canzoni e tutti i temi del disco. In questo caso, è abbastanza specifico, anche se trattiamo da più prospettive la stessa tematica.»
Infatti il nuovo album dedica spazio a chi viene attaccato e soffre per la sua impossibilità di divincolarsi da situazioni di disagio. Ogni brano declina varie correnti: la questione dei migranti, la violenza domestica, forme di oppressione nei confronti di coloro che possiamo considerare deboli. Un modo per rendere pubblico una sorta di “manifesto”, il vostro modo di vedere le cose. Quali sono stati i principali eventi che hanno destato la vostra attenzione e vi hanno spinto, poi, a raggruppare queste problematiche nello stesso album?
«Il tutto viene trattato non da un punto di vista di propaganda politica, ma puramente sociale. La sofferenza è attorno a noi e la vediamo quotidianamente. La macro-questione è una questione di marketing, che a volte ho sentito perché veniva usato per le vendite. “La ricerca del piacere e fuga dal dolore”: la fuga dal dolore è un impulso potentissimo per muovere le persone, anche a spendere dei soldi, ma comunque a muoversi. Partendo da questo mi sono agganciato al concetto di fuga. Normalmente quando una persona decide di scappare dalla sua situazione, considerando che le persone tendono a mantenersi nella zona di comfort, significa che quest’ultima non esiste più. Anzi, diventa una zona di dolore. Questo è avvenuto anche in passato: la canzone che dà il titolo all’album riguarda la grande fame irlandese, una situazione di carestia che ha portato una massiccia emigrazione; quello che avviene oggi è molto simile, ma in altri posti del mondo, con dinamiche analoghe, così come in altri contesti sociali come, per esempio, quello della violenza domestica. Coloro che scappano di casa, a volte ragazzi, a volte donne maltrattate da uomini, a volte anche il contrario: la nostra zona di confort diventa una prigione, una danger zone. Quindi da lì c’è la fuga.»
Questo dico è anche una evoluzione del vostro genere: più volte vi hanno chiesto il perché di questo passaggio dal progressive al rock. Nel disco del 2015 erano presenti anche dei brani in italiano, mentre in quest’ultimo lavoro ci sono soltanto pezzi in inglese. Le due scelte sono collegate?
«Il disco del 2015 fu un disco volutamente di rottura. Il gruppo com’era in passato si era rotto e abbiamo chiamato nuove persone. Abbiamo cercato di fare una cosa completamente nuova, sia con nuovi suoni sia con l’uso dell’italiano, che non avevamo mai usato. Si era trattato un po’ di un esperimento e di un modo per cercare un nuovo linguaggio espressivo. Successivamente, una volta fatto il reset e avendo ordinato le idee, siamo voluti tornare alle origini ma utilizzando al meglio i nuovi talenti del gruppo. Il nuovo lavoro è un po’ meno di rottura ma più vicino alla nostra sensibilità, quindi siamo ritornati all’inglese. Purtroppo, o per fortuna, siamo molto più ascoltati all’estero e questo diventa un veicolo migliore.»
La vostra etichetta “Melodic Revolution”, infatti, è statunitense. Quanto ha influito sulla vostra decisione di non abbandonare il rock?
«Suonare è una questione di passione, più che di lavoro. Fino a quando avremo qualcosa da dire, faremo musica nuova. Il fatto di essere supportati da una label anche straniera e da persone interessate alla nostra musica, significa che dobbiamo andare avanti e che stiamo facendo un buon lavoro, apprezzato dal pubblico e dalla critica.»
Su youtube c’è un video di Claudio Lapenna che descrive “Aprile” nel 2011, presentando il lavoro degli Ifsounds online. Un’attività che, oggi, è all’ordine del giorno. Nell’album trattate anche il tema della “seduzione dei guru digitali“. Che rapporto avete con il digitale e con i social network?
«Adesso, infatti, non lo facciamo più {ride}. Fu una bella idea, anche molto apprezzata. Al di là del marketing, ci sembrò una cosa carina per presentare il nostro lavoro. Mi ritengo discretamente social, non come dovrei. Non abbiamo mai tratto tutto quello che era possibile da questo mondo: è uno strumento poderoso e diventa un lavoro a parte. Va usato con criterio, sopratutto oggi in cui osserviamo una sovraesposizione in questo senso. Tanta gente oggi riesce a farne un lavoro, ma in realtà, spesso, vengono promossi ricorsi, “segreti per guadagnare bene col web”: la questione è che molte persone, in uno stato di grossa difficoltà lavorativa ed economica, ritiengono che queste tecniche siano sufficienti per garantirsi da vivere. Qualcuno ci riesce e questo è un qualcosa che finisce, poi, per modellare la mente di molti. Il web è un mondo meraviglioso, ma anche molto pericoloso. Vediamo come oggi l’opinione pubblica si lasci manipolare dai tenco-guru in questione».
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