Alessia Marino di Raw and Wild ha intervistato Claudio e Dario.
Ecco l’intervista.
Raw and Wild incontra gli IfSounds……dopo l’uscita del loro concept album “Apherophobia”, per saperne di più di “prog”, di mercato musicale, (perchè no?) di politica, e di questa strana “paura dell’infinito” che ci prende e che……
Allora ragazzi come nasce il progetto Ifsounds?
Claudio Lapenna: Nasce tra le passioni musicali condivise tra i banchi di scuola, circa 20 anni fa. Lui si avvicinava agli studi di chitarra, io a quelli di composizione e così in breve venne voglia di suonare insieme, prima delle semplici cover e pian piano sempre di più i nostri pezzi.
Cos’è cambiato da quando in origine eravate solo gli If?
C.L. Sono un po’ cambiati i ruoli soprattutto per via di una migliore definizione delle nostre reciproche competenze acquisite nel tempo. Ma al di là di qualche avvicendamento nella formazione, il seme fondamentale credo sia rimasto immutato: è la voglia di dire qualcosa con la musica che sappiamo fare.
Dario Lastella: Sono cambiate molte cose, innanzi tutto la formazione: il “nucleo storico” formato da Claudio, Franco Bussoli e da me, Dario, è sempre stato presente nella storia della band, ma ovviamente l’inserimento di musicisti nuovi (Enzo Bellocchio alla batteria e soprattutto Elena Ricci alla voce) ha dato un nuovo sound e un nuovo “colore” alla nostra musica. C’è da tenere in conto poi l’evoluzione a livello tecnico e di “sensibilità” artistica dei “vecchi” dal punto di vista compositivo, dell’arrangiamento, dell’esecuzione e della produzione.
Come mai la scelta di questo nome?
D.L. “if” era originariamente un omaggio all’omonima canzone dei Pink Floyd scritta da Roger Waters, oltre che una “dichiarazione d’intenti”: “se” rappresenta il dubbio, la voglia di cercare di andare oltre l’apparenza e il “certo” soprattutto nell’analisi della psicologia umana. Il passo a “ifsounds” lo dobbiamo all’apertura del nostro sito internet ifsounds.com, al fatto che ci sono circa una trentina di altre band nel mondo che si chiamano “if” (tra cui 3 prog, di cui due italiane!) e… che la parola “ifsounds” è molto più “googleabile” :-D!
Passiamo ora al vostro nuovo lavoro: come nasce l’interesse verso l’Apeirofobia, tematica su cui verte il“concept” dell’album?
C.L. Non so se si tratti di un vero e proprio interesse.
Sicuramente è la parola che sintetizza alcuni personali spunti di riflessione emersi nel corso del tempo dai reconditi anfratti interiori che hanno preso forma con particolari, e talvolta profonde esperienze che ci hanno accompagnanato dall’infanzia all’età adulta.
D.L. L’Apeirofobia, ovvero la paura dell’infinito, è uno stato d’animo molto più complesso della paura di morire: l’istinto di sopravvivenza è appunto un istinto insito nel DNA di tutte le creature viventi ed è quindi estremamente “basico”; l’Apeirofobia è molto più profonda, perché è la paura di vedersi imprigionati in un infinito sconosciuto e possibilmente spaventoso. Del resto pensaci bene, è quasi indifferente che ci sia il nulla eterno o il paradiso o qualunque altra cosa tu possa immaginare, in quanto già il concetto stesso di “eterno” è agghiacciante: non si può scappare da una gabbia senza fine, imprigionati da un destino ineludibile, senza un domani semplicemente perché il tempo perde ogni senso. Io credo che sia un po’ un cortocircuito della mente umana che non riesce a realizzare l’infinito, una sorta di “agorafobia” nella dimensione temporale.
Ovviamente questo tema mi ha dato la possibilità di sviluppare un’opera più ampia in cui esamino (pur con tutte le limitazioni del caso) i modi in cui le filosofie e le religioni hanno affrontato il problema dell’”eterno” nella storia, associandoli con varie caratteristiche e stati d’animo dell’Uomo.
Nel disco si avvertono influenze pink floydiane. Siete d’accordo con me? Quali sono le altre band che hanno influenzato la scrittura di “Apeirophobia”?
C.L. Al di là dei Pink Floyd, su cui sono sicuramente d’accordo con te, per noi resta molto difficile risponderti, perchè non avrei da darti riferimenti precisi su altre Band. Potrei citarti i Genesis, i Queen anni ’70, ma, perchè no, anche le più recenti esplorazioni simil-Jazz ed anche tanto altro ancora.
D.L. Vorrei sottolineare ed evidenziare oltre alle influenze già citate, l’importanza che ha avuto l’ascolto e lo studio dei grandi dischi di rock italiano degli anni ’70 (Banco del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi, Balletto di Bronzo, Museo Rosenbach, ecc.) nell’elaborazione di un suono che comunque orgogliosamente rivendico come assolutamente personale e “diverso”. Non vogliamo essere una “clone band”, né accodarci alle mode e credo che ci siamo riusciti.
Vi affibbiano l’etichetta di band Progressive. Alla luce di quanto contenuto nel vostro ultimo lavoro credete sia una definizione esatta?
C.L. Per quello che mi riguarda non saprei trovarne altre e, da un certo punto di vista, le etichette non costituiscono per me una questione di primaria importanza, in fin dei conti serve soltanto per darci una collocazione di genere/stilistica.
D.L. Noi suoniamo ciò che ci piace, poi se dicono che è prog, per me va bene. Ma occhio, secondo me il “prog” non è un genere, ma un atteggiamento mentale di chi vuole far “progredire” la propria musica verso qualcosa di migliore attraverso canali non convenzionali. Per questo motivo non amo il neo-prog né tutti i generi derivativi. Ad ogni modo se proprio dovessi mettere io un’etichetta alla nostra musica mi piacerebbe “art rock” nel senso che almeno nelle intenzioni c’è la volontà di fare qualcosa di artistico e non di fare i “ruffiani” con il pubblico.
Anche la scelta di un “concept album” è una scelta tipicamente “prog”. Sbaglio?
D.L. No, non sbagli. Ma anche qui è più un problema più di “attitude” che di genere: i “concept” del Banco, dei Floyd, dei Genesis o del Balletto di Bronzo nascevano da esigenze artistiche ed espressive e lanciavano messaggi importanti al pubblico, mentre altri si sono messi a fare i “concept” solo perché “era la moda”. Bene, “Apeirophobia”, almeno nelle intenzioni e nell’atteggiamento fa parte della prima “famiglia”. Poi che il concept riesca o meno, o che piaccia o meno, è un altro paio di maniche, ma almeno rivendico una grande onestà intellettuale nell’approccio al lavoro, anche perché ce lo possiamo permettere non avendo l’assillo “commerciale”!
Gli Ifsounds hanno alle spalle ben 17 anni di lavoro sebbene la formazione sia stata rinnovata nel tempo . Ritenete di aver raggiunto un buon livello di maturità artistica e identità musicale?
C.L. Tutto sommato Pietro, Paolo, Luca ed Elena sono delle persone che sono uscite/entrate nei nostri progetti senza mai probabilmente uscire dalle nostre vite, distanze permettendo…
Ognuno di loro, però, ha in parte contribuito anche nel tipo di scrittura che abbiamo di volta in volta scelto, e quindi in un certo senso ha contribuito alla nostra attuale identità.
Riguardo alla maturità, ritengo che qualsiasi forma d’arte dovrebbe essere un percorso di continua maturazione.
Comunque mi sento sicuro nell’affermare che una nostra identità musicale va piano piano consolidandosi. Certamente scriviamo e suoniamo meglio oggi di 6 anni fa quando ricominciò il progetto dopo uno stato di limbo, e la differenza con quando eravamo una garage band di ragazzini è addirittura imbarazzante.
Nonostante i testi in inglese voi siete italianissimi. Cosa ne pensate del panorama musicale italiano attuale?
D.L. Dipende da ciò che si intende per “mercato italiano”: se si parla della scena italiana in generale c’è un sacco di buona e ottima musica in giro, basti vedere per esempio i candidati ai Prog Awards (tra cui abbiamo l’onore di esserci anche noi) e troverai tantissimi musicisti e autori di primissimo livello.
Se si parla dei “soldi veri”, purtroppo si sa che il livello scende e parecchio, salvo poche lodevoli eccezioni. Tuttavia questo non vale solo in Italia, ma è un fenomeno mondiale, con la differenza però che in Italia (o anche peggio in Spagna dove vivo) per un buon musicista è difficilissimo vivere solo di musica ed è quasi impossibile farlo senza scendere a compromessi artistici. Del resto in Paesi come la Svezia lo Stato elargisce aiuti di ogni tipo ai musicisti professionisti (e questo, per inciso, spiega anche la quantità di band di alto livello che vengono da un Paese con così pochi abitanti rispetto a noi), mentre in Italia non esistono fondi per gli artisti (e credo che per i musicisti non ci siano mai stati) e in più chi fa arte e quindi cultura viene additato pubblicamente da esponenti del Governo come un “fannullone”, visto che la cultura “non è un lavoro vero”. Da questo punto di vista essere musicisti o in generale artisti in Italia sta diventando un atto di amore e di eroismo, visto che i soldi della nostra “mignottocrazia” finiscono solo agli “artisti” dei finti talent show e dei “grandi fratelli”.
C.L. In poche parole se parliamo di professionisti “ad alto livello”, a parte qualche voce eccellente e qualche rara eccezione di buoni brani pop, o rock, il livello compositivo globale è medio/basso.
E delle leggi del mercato musicale?
C.L. Ometto la mia risposta di natura meramente politica (già Dario ha buttato il carico a 90…) e per evitare tutte le ovvietà che le vede spietatamente legate a logiche di business, mi limito solo a registrare che sarebbe auspicabile (magari in tempi migliori) pensare di rivedere un po’ tutto il sistema al fine di incentivare musicisti ed artisti in genere a 360 gradi.
Tuttavia oggi possiamo ringraziare le avanzate tecnologie ampiamente diffuse ed il mercato/settore della musica Indipendente, che consentono di arrivare di tanto in tanto ad avere spazi più o meno ampi di visibilità.
D.L. Le leggi del mercato sono da sempre quelle del capitalismo, con la differenza che oggi la torta è sempre più piccola e quindi si divide in meno parti.
Si vendono molti meno dischi, ci sono sempre meno spazi per la musica in televisione e quelli che ci sono sono spesso “lottizzati” dalle poche majors che hanno ancora qualche potere. Qualche tempo fa vedevo su YouTube un vecchio programma RAI in bianco e nero con Renzo Arbore che presentava uno speciale sulla P.F.M. e in cui il buon Renzo si intratteneva con Flavio Premoli, spiegando alla gente come funzionavano moog e mellotron! Ti immagini oggi (per esempio) Simona Ventura fare qualcosa del genere? Ma il problema è a tutti i livelli. Mettete una qualsiasi televisione privata e vedrete tristissimi cantanti che interpretano improbabili cover… nessuno ha il coraggio di puntare su qualcosa di diverso a nessun livello quando di mezzo ci sono i soldi.
Quali sono secondo voi le band italiane libere di “fare” musica oggi?
C.L. I nomi non li saprei, anche se penso ad artisti come Elio E Le Storie Tese (per citare solo un nome molto noto) che tutto sommato hanno elevato il genere demenziale ad un altissimo livello di espressione musicale, direi anche in termini prog, e credo che questo sia una bella forma di libertà, in un certo senso, conquistata sul campo.
In senso più generale cosa significa “libere di fare musica”?
Probabilmente, credo che basti trovare gli ambiti in cui sentirsi artisticamente a proprio agio per raggiungere già un primo livello di libertà espressiva artistica.
D.L. Alla fine le band veramente libere sono quelle che non vogliono/devono vivere di musica. Internet è un mezzo democratico che permette proprio a tutti di dire e suonare ciò che vogliono per farsi sentire in giro e c’è sempre più gente che oggi cerca un qualcosa di diverso da quello che propinano i grandi networks. Ovviamente se ci devi campare e non hai le spalle più che coperte, il discorso cambia radicalmente.
Come mai la scelta di rendere libera la fruizione del vostro album su internet?
D.L. Ottenere “esposizione” radiofonica è piuttosto difficile oltre che carissimo. Abbiamo ottenuto parecchi airplays (gratuiti!) in giro per il mondo in almeno una decina di Paesi diversi, ma è ovvio che una campagna di promozione radiofonica vera e propria, la tanto agognata “heavy rotation”, è fuori dalla nostra portata, visto che lì entrano in gioco altri “fattori”. Quindi il modo più efficace di far conoscere la nostra musica è farla ascoltare in streaming gratuito. Sarebbe folle sperare di vendere al giorno d’oggi musica “a scatola chiusa”: c’è tantissima musica in giro e la gente giustamente vuole conoscerti prima, vuole amare la tua musica e poi forse può decidere di investire qualche euro in un gruppo indipendente. Poi considera che ho contato l’altro giorno circa una cinquantina di web in tutto il mondo che distribuiscono gratuitamente il nostro lavoro avendolo “piratato”. A questo punto ti adegui, sperando che qualcuno possa riconoscere anche economicamente il tuo sforzo.
Ma l’importante è sempre il lato artistico, quindi io sceglierei sempre di vendere solo 100 copie e che 100000 persone ascoltino il disco, piuttosto che venderne 10000 e che solo questi 10000 abbiano accesso alla nostra musica.
Cosa vorreste dire a chi non vi ha ancora mai conosciuti?
D.L. Di visitare il nostro sito www.ifsounds.com e di ascoltare gratis la nostra musica in streaming per farsi un’idea. C’è anche la possibilità di scaricare gratuitamente una compilation uscita prima di “Apeirophobia” con il meglio della nostra carriera come “if”. Ma la cosa più importante è che lo stesso “Apeirophobia” è interamente disponibile in streaming, quindi tutti lo possono ascoltare ed eventualmente apprezzare. Se poi vorrete anche scriverci un messaggio o addirittura comprare il CD sarete i benvenuti e degni della nostra gratitudine :-)!
C.L. IFSOUNDS… Just enjoy our Sounds :-)!
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